Ogni virus sfrutta le cellule degli organismi che infetta e lo fa attraverso delle capsule che contengono materiale genetico. Dato che sulle superfici di queste capsule si rende visibile una forma che ricorda le linee di una corona, il virus che attualmente ci tiene in casa è stato per l’appunto denominato “Coronavirus”. Le punte di questa corona sono particolarmente importanti. Su di esse è infatti presente una proteina che si lega alle membrane cellulari dell’organismo infettato grazie a un recettore (enzima) della cellula: una sorta di goalkeeper, un portinaio, un portiere. In questo modo, il Coronavirus ha accesso alla cellula e vi trasferisce il suo codice genetico (RNA), sfruttando immediatamente gli organuli cellulari per potersi replicare. A questo punto, tali copie lasciano la cellula originaria per andare a infettarne altre. Il Coronavirus contro cui si sta combattendo certamente una battaglia epocale si distinguerebbe da altri virus (e da altri Coronavirus) perché presenterebbe sulle punte una particolare proteina. Tale proteina pare abbia – non è abuso di condizionali, ma dosaggio consigliato – un cosiddetto “punto di attivazione” adatto a reagire con la Furina (singolare assonanza coll’ex calciatore Furino), un enzima della cellula il cui compito è rimuovere alcuni pezzetti della proteina, che viene così attivata (sarebbe altrimenti rimasta inattiva). Metaforicamente la proteina, reagendo con la Furina, si crea uno spazio di libertà, che naturalmente diviene spazio di contagio. Come nel calcio. Lo scrive anche lo scrittore argentino Osvaldo Soriano: caratteristica fondamentale del genio del calcio è quella di creare “un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio” (Fùtbol. Storie di calcio, Einaudi, 1998).

Domenica scorsa Juventus e Inter hanno giocato il big match di Serie A a porte chiuse. Guardavo la partita distrattamente, cenando in un ristorante sull’Ostiense che pure pareva a porte chiuse. Sbirciavo più che guardare. Il gioco era compassato, più lento di come ci hanno abituato negli ultimi anni. La velocità di gioco è cresciuta in maniera esponenziale nel calcio nel tempo: manovre velocizzate e via discorrendo. Come con le automobili: l’uomo troverebbe oggi ridicolo guidare una macchina che non vada a più di 50 chilometri orari, sebbene meno di un secolo fa fosse una velocità ragguardevole. Sembrava così un incontro sportivo irreale, fuori dal tempo, una registrazione o un blando allenamento. Nella descrizione del virus si diceva del recettore goalkeeper, prima metafora calcistica. In quella partita mancava la proteina: nelle partite senza il pubblico, in quelle condannate a giocare senza spettatori, manca la velocità del contagio impressa dalla proteina/pubblico liberata dal recettore. La proteina del pubblico, reagendo con la furia (singolare assonanza con la Furina) dei calciatori in campo, crea spazi di libertà, che diventano spazi di contagio. Il dribbling è una zona di contagio: smarcarsi prevede una fuga e la fuga incontrollabilità e l’incontrollabilità penetrabilità, diffusione, goal, destino, morte o ancora vita. Ogni rete è dunque una vittima. Etimologicamente “contagio” significa proprio “toccare insieme”: il pubblico recettore (enzima) tocca il pallone insieme alla furia/Furina del calciatore, che è così spronato a vedere quel nuovo spazio, a entrarci.

Dybala, che è un principe assoluto del gioco del calcio, rompe alcuni pezzetti della proteina del pubblico e si crea uno spazio che prima non c’era. Lui può farlo, lui come pochi, perché “genio” e non soltanto “fenomeno”, differenza ben descritta anche da Corrado Del Bo e Filippo Santoni de Sio, autori de La partita perfetta. Filosofia del calcio[1]: il genio – Messi, ad esempio – è colui che vede uno spazio nuovo, lo inventa; il fenomeno – CR7, ad esempio – è un esecutore perfetto, da manuale, ma “non apre nessuna nuova frontiera”. I geni sono anche fenomeni, ma non è sempre vero il contrario. E i geni sono tali anche in assenza della proteina: ricercatori, cercate di capire che enzima è uno come Dybala. Insomma, la maggior parte delle furie/Furine ha bisogno che il pubblico/proteina si attivi, per produrre gioco, dunque viralità, contagio. La proteina, pure si diceva, è presente sulle punte: il tifo si attiva quando la squadra si porta all’attacco, è lì che lo determina, al contrario di una parata dove il gesto stesso di chiusura della porta è determinante per l’attivazione della proteina del pubblico. Il pubblico è un invito.

Senza proteina è bene chiudere lo spazio che essa si è procurato, isolare. Il calcio è già isolamento per un tempo determinato – non esistono partite infinite – ma non esiste il calcio senza pubblico vivo. La trasmissione è solo una protesi. Pasolini definiva[2] gli spettatori come “decifratori” del linguaggio che è il calcio, linguaggio di poeti e prosatori, metafora che si ravviva nella dimensione di uno sport che avrebbe sostituito persino il teatro. Con un amico attore, si parlava proprio di questo qualche giorno fa: il teatro non si può fare senza pubblico, lo puoi trasmettere attraverso altri canali mediatici, ma è sempre solo una registrazione di un atto, di un sacrificio che si è già compiuto, pronunciato durante uno spettacolo dal vivo. Anche nel teatro il pubblico è proteina: è il pubblico che crea lo spazio in cui il teatro agisce. Perché teatro si lega al significato di guardare con meraviglia qualcosa che si manifesta. Come nel sacro, qualcosa pare, qualcosa appare, si apre uno squarcio in uno spazio che sembrava finito e c’è bisogno di un pubblico, di carne viva, di una processione, un’ostensione: è anzi ancora questo pubblico a creare lo spazio entro cui si verifica la manifestazione del miracolo. Adesso che di processioni non possiamo farne, è bene riportare il santo, il mostro, il miracolo nella sua teca di vetro: sarà questo stesso gesto, questa ritirata a conservare la vita. Il calcio come rappresentazione necessita del contagio, del contatto. Il pallone fa in campo quello che su un palco è attivato dalla voce, dalla parola. Ora silenzio, poi sarà ancora verbo, poi ancora carne, verrà lo spazio e avrà i nostri occhi.

Simone Di Biasio per Policlic.it


Note

[1] C. Del Bò, F.Santoni De Sio, La partita perfetta. Filosofia del calcio, Utet, Milano, 2018

[2] P. P. Pasolini, intervista su Il Giorno, 3 gennaio 1971